Sentiero glaciologico dei Forni

Dettagli

Data
20-8-2016
Durata
2 giorni
Difficoltà
EE: Escursionisti esperti
Accompagnatori
  • Raffaele Vezzola
  • Lucio Pezzottini

Ag CAI Vestone: superato il muro dei 3000 metri
Per l’uscita “alpinistica” di due giorni
quest’anno ci siamo rivolti alla Valfurva, destinazione rifugio Branca al ghiacciaio dei Forni; partecipanti: 33 ragazzi e 8 accompagnatori.
Un lungo viaggio in autobus: val Camonica, passo Aprica, Valtellina per giungere fino a Santa Caterina a quota 1738 metri s.l.m., dove termina il tragitto in corriera per poi salire su due fuoristrada che ci risparmiano i 6 km circa di asfalto fino al parcheggio dell’albergo dei Forni 2171 m.
A lungo siamo rimasti indecisi se utilizzare un mezzo così poco “Caino” per giungere alla partenza del sentiero, ma le previsioni meteo degli ultimi giorni parevano tutte delle “Cassandre portatrici di sventura” con responsi temporaleschi a non finire. Il cielo invece è terso e poche nuvole corrono pacifiche.
La partenza sul “sentiero glaciologico” è un poco laboriosa: sbagliamo direzione!
La versione degli accompagnatori è che è una scelta consapevole per verificare l’attenzione dei ragazzi dopo la sveglia antelucana delle ore 6. Mah!
Il pranzo è previsto presso i ruderi di una postazione della guerra del 15/18 che si trovano a circa 2600 metri di quota, ma pare non arrivino mai, il sentiero è ripido e sulla nostra testa si addensano le prime nuvole scure.
Siamo finalmente alla tappa e si possono aprire gli zaini: mezz’ora per la meritata pausa pranzo. Di fronte a noi scorgiamo per la prima volta il rifugio Branca, nostra destinazione per la notte ma da esso ci separa l’ampia vallata dei Forni con le sue morene e, in fondo il fronte del ghiacciaio. Si riparte, il cielo è sempre più scuro e si alza un vento gelido che ci invita ad allungare il passo. I più piccoli in parte appesantiti dal cibo cominciano a perdere qualche colpo, mentre i più motivati mordono il freno.
Che fare, il rischio pioggia è sempre più probabile, ma il programma prevede il ghiacciaio, pertanto deviamo a destra uscendo dal sentiero per raggiungerne la seraccata. I primi arrivati rimontano la morena e risalgono il ghiacciaio utilizzando i detriti che lo ricoprono. Abbiamo negli zaini alcuni chiodi da ghiaccio e una picozza con i quali facciamo attrezzare dai ragazzi più grandi una sosta per apprendere come si progredisce su ghiaccio, ma il temporale incombe e le prime gocce pesanti ci cadono sulla testa, dobbiamo ripartire. Fuori le mantelle, le giacche a vento e i coprizaino.
I due ponti tibetani sopra il torrente in piena vengono superati di un balzo, la pioggia ora è tambureggiante e il rifugio ancora lontano. Il sentiero è in discesa ma le rocce della morena sono scivolose pertanto è indispensabile rallentare e attivare la testa oltre alle gambe…
Ultima salita ed eccoci al Branca. Una calda stanza per gli scarponi attende i nostri abiti bagnati. Tirati fuori i ricambi, allestiamo l’asciugatura sui numerosi “ometti” di fronte ad una grande stufa e ad un paio di termoconvettori che sparano aria calda. È un piacere trovarsi in un rifugio così ben attrezzato…
Le nostre camere sono nella parte “storica” del rifugio, ristrutturata in modo splendido con tanto legno e una buona disponibilità di servizi. La distribuzione nelle camere (da 6/8 posti) è un poco “anarchica”, ma siamo stanchi e non c’è tempo per fare una distribuzione “oculata”.
Ultime raccomandazioni e via all’occupazione degli alloggi.
Cena alle ore 19. Incredibilmente siamo gli unici ospiti del rifugio e questo ci permette anche di essere un poco rumorosi senza rischiare di disturbare nessuno. Dopo cena i ragazzi fuggono quasi tutti nelle camere e noi adulti ci attardiamo nella zona bar. Il coprifuoco è per le ore 22. Permettiamo ancora un poco di agio ai ragazzi ed un quarto d’ora prima della scadenza saliamo nelle camere per verificare lo stato delle cose.
Che troviamo? A parte un pigiama party con dei baldi giovanotti vestiti da donna con tutti gli attributi del caso e un’insurrezione dell’ISIS in atto, al grido di mantra in un arabo improbabile, per tutto il resto direi bene. Riportiamo l’ordine e per le 22 un quasi silenzio regna nei corridoi, a parte il battere della pioggia che ancora cade a scrosci sul tetto.
Nessun ferito se non qualche impiastricciato di dentifricio o crema per la pelle.

Sveglia alle ore 6:30, colazione alle 7:00, fuori alle 7:30: nuvoloso, ma niente pioggia.
Dobbiamo raggiungere il rifugio Pizzini a quota 2700, e per farlo non scegliamo la facile stradina di fondovalle ma ci inerpichiamo sui pendii alla sinistra orografica, lungo alcuni ponticelli e una fantastica vista sulle cime che ci circondano. Numerosi sono i fischi delle marmotte e molte di loro riusciamo anche a intravedere. Riusciamo anche a individuare un camoscio, che però si rivela un sasso con la forma e il colore dell’animale; appariva un po’ troppo statico…
Il tempo peggiora e una fitta nebbia ci nasconde la vista del rifugio.
La fatica comincia a farsi sentire e le pause per riposare sono sempre più frequenti.
Rimane il solito gruppo dei più motivati che scalpita. Decido allora di dividere la compagnia, tolgo il freno ai primi, concedendo tempo di riposare ai più stanchi. Non l’avessi mai fatto: accompagnatore davanti e i ragazzi raggruppati dietro a spingerlo verso l’alto. A questo punto permetto loro “libero passo” e noi adulti ad arrancare dietro di loro. Infine al rifugio i ragazzi ci danno ben 3 minuti di distacco.
La coda tarda, di sicuro non ce la farà poi a salire ai 3005 metri del passo Zebrù e non sarebbe giusto “tarpare le ali” ai più forti, pertanto organizzo i ragazzi accompagnati da Marco ed Emanuele (che mi garantiscono la sicurezza) e propongo loro di salire al goletto.
Offerta accettata e partono rapidi in mezzo alla nebbia.
Alla spicciolata arriva il resto del gruppo la cui maggior parte non vede l’ora di abbandonarsi a terra per riposare. Ma c’è ancora un gruppo di giovani che ha energia pertanto organizziamo un secondo manipolo di ragazzi che affronteranno i 350 metri che ci separano dal muro dei 3000.
Con media perfetta anche il secondo gruppo, condotto da Narciso, giunge al passo dove trova i compagni partiti prima che stanno ammirando la parete dell’Ortles illuminata dal sole in un varco nelle nuvole che ci circondano e, lontano sulla cresta, alcuni camosci.
È sicuramente il gruppo dei più motivati, non per forza dei più forti. Ci tengo a rimarcare che 7 ragazzi del gruppo “Ragazzi in Montagna” hanno raggiunto il passo e dell’AG ne erano presenti solo 4. Bravi tutti ma ci tengo a segnalare Daniele il nostro “piccolo grande alpinista Recuperante”.
La discesa ora. Snobbiamo ancora la stradina di fondovalle, di sicuro più corta ma di certo più monotona ed elementare e imbocchiamo il “sentiero panoramico” che corre alto sulla sponda destra della valle.
Inizia a piovere e il sentiero si rivela lungo anche perché stavolta non ci saranno le jeep ad evitarci il tratto dai Forni a Santa Caterina… Disdegniamo anche la strada asfaltata e rimaniamo, salendo, ancora in quota. Il percorso è davvero infinito e alcuni mugugni serpeggiano tra le fila, ma la cosa curiosa che le voci di protesta provengono da coloro che hanno riposato al Pizzini evitando di salire al passo Zebrù.
Permettetemi ancora un pensiero in merito alla motivazione, la tecnica si può imparare, ma è solo la motivazione che ti permette di alleggerire la fatica dandole senso e, se ci riesci, scopri la bellezza di essere in un ambiente sì faticoso, ma desiderato.
Puntuali ci imbarchiamo sul pullman dopo esserci nuovamente cambiati dagli abiti fradici di pioggia sotto lo sguardo attento del nostro autista Antonio giustamente preoccupato per il suo autobus.